Marco Parente è uno di quegli artisti che – per una volta a ragione e senza timore di smentita – si possono tristemente definire “sottovalutati”, trattandosi invero di uno dei cantautori più interessanti e raffinati emersi negli ultimi venticinque anni.

Il fatto che, più per scelta e indole che non per imperizia, abbia da sempre mantenuto un profilo basso non lo ha certo aiutato a farne ampliare i consensi, che pure ci sono da parte della critica e di un pubblico affezionato; anche a livello comunicativo poi in un periodo dove sappiamo, ahimè, che per ottenere “successo” e visibilità  contano spesso fattori extramusicali, lui non è mai stato uno che sgomita pur di farsi notare.

Se a un occhio distratto la sua discografia potrebbe apparire poco prolifica, basta spostare un po’ l’attenzione per rendersi conto che invece il suo nome compare in progetti paralleli (alcuni di ottima fattura, come quello a nome Proiettili Buoni, sorta di super gruppo comprendente anche l’amico Paolo Benvegnù, titolare di un unico pregevole album), collaborazioni delle più svariate e deviazioni in territori sperimentali (confluiti in due particolari lavori   usciti tra luglio e agosto: un Ep con il moniker Buly Pank e un sentito omaggio al poeta Dino Campana), come a dire che il Nostro non è uno a cui piaccia rimanere con le mani in mano, o che abbia paura di reinventarsi.

Un disco vero e proprio a nome Marco Parente però mancava dal 2013 (“Suite Love”, prodotto da Taketo Gohara) e quindi l’attesa per questo nuovo capitolo del suo percorso artistico si era fatta sentire.

“Life”, che il suo autore intende come ultima parte di una trilogia che comprende gli Ep di cui si è accennato poc’anzi, non delude certo le aspettative, mostrandoci ancora in modo innegabile quanto talento alberghi in lui, qui declinato attraverso dieci caselle di un puzzle che forse un po’ incautamente potremmo definire concept-album.

Ecco, ci sono cascato nella trappola ma in fondo, pur essendo i vari brani differenti tra loro per via di un’efficace lavoro di cesello e di selezione del suono e dell’arrangiamento giusto, essi confluiscono tutti in un calderone musicale (oltre che narrativo) il cui topos va ricercato in tematiche pressochè esistenziali.

Non si deve però fare l’errore di considerarlo un album pesante, dai toni intellettuali (che pure sappiamo appartenergli) o pretenziosi, in quanto sin dalla traccia posta in apertura riusciamo ad avvertire una rinnovata voglia di alleggerirsi da sovrastrutture o archetipi cantautorali già  ottimamente esplorati in passato: “Nella giungla” è davvero deliziosa e ammaliante, assolutamente brillante nel suo incedere metrico e rivestita di un arrangiamento vivace e policromo.

La successiva “Vita” appare ben adatta a farci entrare nel mood giusto dell’opera, facendoci pregustare una succosa leggerezza pop da non confondersi assolutamente con la banalità .   Molto interessante è seguire lo sviluppo di quella sorta di monologo o flusso di coscienza che caratterizza “Lo spazio tra i personaggi”, calibrata e avvolta da splendidi interventi del violoncello, che ne configurano un’atmosfera “alla Battiato.

Ogni traccia come detto si fa apprezzare e ricordare per un espediente, che sia musicale o letterario, in grado di fare la differenza: dal crepuscolarismo di “Ok panico!”, nuovamente incentrata sulla vita (e il cui titolo curiosamente richiama la citazione de “L’aereo più pazzo del mondo 2” e un racconto per bambini), alla lenta eppur ritmica “Avventura molecolare”; dalla pimpante e stralunata “In mezzo al buio” – che nell’incipit fa strabuzzare fragorosamente le orecchie, somigliando a “Let Down” dei Radiohead -, all’onirica e conturbante (nelle sue note jazzate) “Ma quand’è che si ricomincia da capo?”,   è evidente che ci si trova davanti a un album quantomeno ispirato e di gran qualità .

Sensazioni che ci vengono confermate anche nei rimanenti tre brani, la cui chiave vincente è da ricercare in una vena felicemente e consapevolmente intimista, sia nell’ondeggiante “Il gusto della via” che nella soffusa ballata “Mai solo”, con la summa creativa rappresentata da “Bar 90”, intensa e struggente autodichiarazione del proprio io interiore che diventa ode amorosa, intessuta in una splendida cornice di pianoforti e suggestivi archi.

Da pelle d’oca il verso “Eppure proprio sotto casa mia/ci si sporca le mani col cuore”, a rinverdire il proclama impresso a fuoco e filo conduttore dell’intera trilogia dichiarata: “POE3 IS NOT DEAD”.

Sarebbe davvero un peccato non accorgersi della grandezza di questo disco. Il consiglio all’ascolto è in questo caso un obbligo cui mi presto più che volentieri!